Il nuovo realismo russo di fronte al pragmatismo di Obama
“ La longevità e la stabilità della supremazia americana sul mondo dipendono esclusivamente dalla maniera con cui essi manipoleranno o sapranno soddisfare i principali attori geostrategici presenti sulla scacchiera eurasiatica e con cui giungeranno a gestire i cardini geopolitici di questa regione.”
Zbigniew Brzezinski
Le Grand échiquier
(2000, p. 250)
A seguito della crisi politica provocata dal rovesciamento del presidente K. Bakiev, si è per un attimo temuto il peggio per l’avvenire del Kirghizistan. Poiché a questo colpo di Stato più o meno manovrato dall’esterno e potenzialmente portatore di instabilità politica interna, sono conseguiti dei disordini inter-etnici particolarmente cruenti e alla fine portatori di instabilità esterne – in particolare lungo i confini post-sovietici. Di fronte a questa concatenazione di violenze etniche, il presidente russo Dimitri Medvedev ha dichiarato, il 15 giugno 2010, che la situazione in Kirghizistan era diventata “intollerabile”.
Di per sé, questa crisi è politicamente non neutra in termini di ristrutturazione dei rapporti di forza sull’ex spazio sovietico e, in particolare, di ridefinizione del ruolo della Russia nella sua zona di interesse storico. Oggi, quest’ultima tende ad abbandonare l’interventismo sistematico – a dominanza ideologica – che la caratterizzava sotto il periodo sovietico, a vantaggio di un’attitudine più prudente e responsabile, privilegiando i suoi interessi nazionali ma allo stesso tempo sforzandosi di preservare i grandi equilibri politici della regione.
Quest’orientamento più realista della sua politica estera ha portato Mosca a respingere tutta l’azione unilaterale nel suo regolamento della crisi kirghiza e inoltre ad agire prioritariamente nell’ambito delle strutture di sicurezza collettiva instaurate, sotto il suo impulso, sullo spazio post sovietico. Ma in definitiva, il comportamento russo sembra strettamente legato alle sfide reali – più o meno celate – della crisi kirghiza, poiché questa crisi potrebbe riporre in causa la presenza americana preoccupata di restare in Asia centrale, ma costretta oggi ad un certo pragmatismo per difendere i suoi interessi economici ed il suo nuovo status di potenza alternativa alla Russia nella regione.
In quest’asse, Washington cerca di mantenere lo status quo politico in Asia centrale – per mezzo di una stretta cooperazione o perfino di un sostegno ai regimi attuali – nell’ottica di stabilirvi la sua sfera di influenza e infine preservare il suo accesso alle risorse energetiche. E ciò, tanto più che ad una scala globale integrante l’Eurasia post comunista, la potenza americana – sulla base della leva della NATO – sarebbe ormai, secondo l’eminente consigliere del presidente Obama, Zbgniew Brzezinki (2004, p.7) “l’ultimo garante della stabilità internazionale”[i].
In questo senso, si tratterà nell’ambito di questo studio di analizzare l’implicità di questa crisi.
Futuro incerto
Il carattere critico di questa crisi eurasiatica si spiega con il suo doppio impatto. In un primo tempo, essa tende in effetti a ridistribuire le carte degli Stati presenti in Asia centrale e, inoltre, a modificare le regole del gioco nella zona post-sovietica a vantaggio di una Russia più forte e che ritorna nel suo spazio storico. Quest’ultima, secondo Brzezinski (2008, p. 208), cercherebbe oggi di “instaurare un nuovo ordine che tornerebbe ad isolare l’Asia centrale dal resto del mondo (…)”[ii]. In un secondo tempo, questa modifica delle regole tende ad accrescere i rischi di destabilizzazione e di contagio rivoluzionario in Asia centrale, coma ha ricordato il 29 giugno 2010 il presidente kazako, Nursultan Nazarbaev, in un discorso allarmista a Astana, in occasione di una conferenza dell’OCSE[iii]. Ormai, un elevato grado d’incertezza caratterizza il futuro di questa vasta regione.
Fino ad ora e dallo scioglimento dell’URSS del 25 dicembre 1991, queste regole sono state imposte da una potenza americana avida nell’approfittare della sua eclatante vittoria della Guerra Fredda e della temporanea debolezza della Russia post-sovietica, allo scopo di accelerare il suo arretramento nei confini – vale a dire, nella sua antica zona di dominazione imperiale. Poiché la “fine della storia” seguita alla caduta dell’Unione Sovietica, riconosce Brzezinski (2008, p. 24), ha conferito agli americani un nuovo status imperiale ed un’arroganza nella loro certezza di poter “ormai fissare le regole del gioco”[iv] – e, inoltre, di strumentalizzare le nuove regole internazionali di guerra. Ma soprattutto, secondo la strategia di destabilizzazione pazientemente attuata da Z. Brzezinski e perfettamente riassunta nella sua opera maggiore “La Grande Scacchiera”, si tratta di impedire tutte le velleità russe di ricostruire il suo antico impero[v]. In quest’ottica, Brzezinski raccomanda una politica centrata sull’emancipazione delle ex repubbliche dell’URSS dalla tutela russa – principalmente in zona caucasica e centro-asiatica. Secondo lui, questo vincolo obbliga l’amministrazione americana a “garantire l’indipendenza degli Stati post-sovietici della regione” (Brzezinski, 2004, p. 92) – tra cui, naturalmente, quella del Kirghizistan. Ma più in generale, si tratta di frenare, o addirittura bloccare, l’emergenza sullo spazio eurasiatico di una nuova potenza maggiore, potenziale minaccia per l’egemonia americana.
Tale orientamento appare chiaramente dal 1992, nella conclusione di due rapporti del Pentagono, precisando che il mantenimento dell’egemonia americana nata dalla Guerra del Golfo e dall’implosione del blocco sovietico implica “convincere eventuali rivali che non hanno bisogno di aspirare a ricoprire un ruolo maggiore” – e che in caso contrario Washington sarebbe costretta a “dissuaderli”[vi]. L’aspetto più problematico è che questa aspirazione americana al “primo ruolo” sul continente eurasiatico si è mantenuta fino al giorno d’oggi, sotto forme certamente meno aggressive con l’amministrazione Obama, che ha fatto dell’Afghanistan – e dunque in maniera indiretta, in ragione di rapporti strategici, del Kirghizistan – una delle priorità della sua politica estera.
Così, nella visione di Brzezinski, l’Asia centrale sarebbe la più importante pedina di una vera e propria partita a scacchi condotta su scala eurasiatica in cui si trasforma il Kirghizistan in una variabile chiave della Grande Scacchiera, poiché le mani messe sul Kirghizistan permetterebbero a Washington di meglio controllare la futura evoluzione geopolitica dello spazio post-comunista e più in particolare, il comportamento di una Russia revanscista.
Una zona strategica
Poiché il Kirghizistan è nel cuore di una zona centro asiatica strategica e desiderata dalle potenze americana, cinese, russa – anche europea – questa crisi assume una dimensione particolare. Poiché, senza tener conto del suo immenso potenziale energetico, l’Asia centrale sembra essere una leva fondamentale nell’ottica del controllo del continente eurasiatico, centro nevralgico del nuovo mondo, secondo Brzezinski. Senza mezzi termini, egli ha ricordato l’evidente interesse politico di questa regione per la strategia americana a lunga scadenza, in materia di sicurezza energetica e di accerchiamento della Russia – tramite dei circuiti alternativi: “In un determinato momento, probabilmente non così lontano, diventeranno realizzabili degli oleodotti e dei gasdotti che vanno dall’Asia centrale all’Oceano Indiano passando per l’Afghanistan ed il Pakistan. Ecco delle buone cose da fare.” (Brzezinski, 2008, p. 199). Dopo la fine della Guerra Fredda, la situazione strategica dell’Asia centrale all’interno della sfera eurasiatica non cessa di rinforzarsi, restando una fonte di tensioni crescenti tra russi ed americani. Oggi, Washington arriva a contestare la legittimità della dominazione russa in questa regione, nociva secondo lei per il suo sviluppo di lungo termine.
La Russia, afferma Brzezinski (2008, p. 208), “dovrà ammettere di non poter controllare indefinitamente questo immenso territorio, dal sottosuolo così potenzialmente ricco, senza far parte di un insieme più vasto. È questo insieme è, per definizione, la comunità euro-atlantica”. All’inizio del decennio 2010, lo spazio eurasiatico rappresenta circa il 75% della popolazione mondiale, il 60% del prodotto nazionale mondiale e il 75% delle risorse energetiche del pianeta[vii]. Considerata da Brzezinski (2000, p. 249) “la scena centrale del pianeta”, l’Eurasia si presenta ormai come il motore politico ed economico dello sviluppo mondiale. Nell’ottica di mettere al sicuro la dominazione politico-militare americana, l’estensione della NATO – e della zona di responsabilità eurasiatica – diviene per Brzezinski una questione non aggirabile: “Il campo d’azione strategica dell’Alleanza Atlantica è chiamato ad allargarsi verso l’insieme eurasiatico” – da cui l’emergenza di una vera funzione politica della NATO.
Su un piano storico, l’Asia centrale – come entità eurasiatica – fa parte della sfera d’influenza russa, parzialmente strutturata sotto il sovietismo. Ciò è stato recentemente confermato dall’ex primo ministro russo (settembre 1998-maggio 1999), E. Primakov: “La Russia ha degli evidenti interessi con questi paesi (dell’Asia centrale, N.d.A.) che sono appartenuti all’Unione Sovietica. Esistono delle forti relazioni tra i popoli, una storia comune, un antico spazio economico unificato (…)”[viii]. In questo senso, si può parlare del mantenimento di una forte cultura sovietica in Asia centrale, che alla fine contribuisce a rinforzare l’unità, e dunque la stabilità, di questa regione. Ora, mirando a introdurvi il “pluralismo geopolitico” – di cui il Kirghizistan, dopo la rivoluzione “colorata” del 2005, non sarebbe che una perfetta illustrazione – la linea Brzezinski ripone in causa il ruolo unitario e regolatore di questa cultura ereditata dal sovietismo, poiché, in sostanza, tale strategia pluralista tende a erodere il pesante monolitismo russo, visto come la leva della sua dominazione politica e perciò considerato come nefasto dal celebre stratega americano. La linea anti-russa di Brzezinski è quindi un fattore acceleratore di crisi.
Nell’ambito di questa lotta per la dominazione regionale, il Kirghizistan acquisisce un’innegabile dimensione geopolitica, tanto più che ospita due importanti basi militari americane e russe, riflettendo una forma di equilibrio delle potenze post-guerra fredda. E, alla fine, la sua posizione nel cuore degli itinerari strategici della regione ne fa uno Stato-cardine inaggirabile sullo Scacchiere eurasiatico. Ciò spiega, dopo la sparizione dell’URSS, la politica benevola di Washington riguardo il Kirghizistan, nell’ottica di farsene un solido alleato e di utilizzarlo come testa di ponte per impiantarsi stabilmente nella regione. In questo schema, si può spiegare la prima rivoluzione liberale (“dei tulipani”) – che ha portato K. Bakiev al potere nel 2005 – come un tentativo di controllo americano di una ex repubblica sovietica, che mira di fatto a destabilizzare l’autorità russa e a rimettere in gioco la sua influenza in Asia centrale. Su questo punto, si ricorderà il ruolo decisivo delle ONG controllate (tramite i loro finanziamenti) da Washington nello scoppio di queste presunte rivoluzioni spontanee di ispirazione liberale e in questo senso sembra logico che il Kirghizistan sua caratterizzato da una densità di ONG stranamente elevata – già nel 2005, 8000 ONG teoricamente kirghize ma in realtà straniere, poiché di fatto controllate dal potere americano[ix]. In ultima istanza, si ricorderà il determinante contributo di queste ONG nella promozione della “democrazia” e, tramite ciò, nella riuscita delle prime rivoluzioni colorate in Georgia (2003), in Ucraina (2004) e in Kirghizistan (2005) – una cui principale conseguenza è stato l’intaccare l’autorità russa (ed i suoi interessi) in Asia centrale.
Da questo punto di vista, si possono comprendere le continue e reiterate critiche di V. Putin riguardo certe ONG dal comportamento dubbio e finanziate dall’estero, utilizzate da Washington come mezzi d’ingerenza nella vita politica interna degli Stati della zona post-comunista e, inoltre, come catalizzatori delle rivoluzioni liberali. Il loro intermediario, l’immutabile Brzezinski, è stato particolarmente attivo in Cecenia – tramite il suo “Comitato Americano per la Pace in Cecenia” (American Committee for Peace in Chechnya), con sede nei locali della Casa Bianca (!) e in pratica destinato al sostegno informale degli indipendentisti ceceni. Ironia della storia, è stata precisamente una seconda rivoluzione – inizio aprile 2002 – che ha rovesciato Bakiev, il cui regime è stato accusato di deriva autoritaria e di corruzione generale.
La posizione russa
Oggi, una questione più grande riguarda la pertinenza di un intervento militare russo per stabilizzare – definitivamente – il paese e, tramite ciò, evitare una destabilizzazione più globale della zona centro-asiatica. Negli anni ’90, la Russia era già intervenuta nella regione per calmare le tensioni etnico-nazionaliste, ma molto velocemente, si è lasciata trascinare in un sanguinoso conflitto e, soprattutto, è stata accusata dai belligeranti di alimentare la discordia per giustificare la sua azione militare. L’amministrazione russa non vuol più rivivere un tale incubo.
Nel contesto attuale delle conseguenze delle tensioni in Kirghizistan, l’ipotesi circa l’eventualità di un’azione russa deve tener conto di tre parametri. Innanzitutto, Mosca si è fino ad ora rifiutata di intervenire in ragione della “sindrome georgiana” dell’estate 2008 e dell’ostilità dell’opinione pubblica internazionale che qualificava allora la risposta russa all’aggressione dell’esercito georgiano come “sproporzionata”. In occasione della sua visita del 5 luglio 2010 a Tblisi, il segretario di Stato americano, H. Clinton, ha di nuovo condannato “l’invasione e l’occupazione della Georgia” da parte dell’esercito russo[x]. In seguito, il Kirghizistan si situa nello spazio di sicurezza teoricamente coperto dall’organizzazione politico-militare dell’OTSC, cosa che probabilmente porterà Mosca – se necessario – ad organizzare un’azione in un contesto collettivo implicante l’accordo degli altri Stati della regione, nati da ex repubbliche dell’URSS. Infine, Mosca deve tener conto degli interessi degli Stati kazaki, uzbeki e tagiki visto che il Kirghizistan si trova nel loro spazio d’influenza politica e possiede delle importanti minoranze etniche provenienti da questi ultimi – da cui l’attuale problema dei rifugiati uzbechi (15% della popolazione kirghiza), costretti a fuggire dai massacri etnici[xi].
Da questp punto di vista, creando artificialmente numerose minoranze etniche disseminate su scala sovietica, l’eredità staliniana dell’irrazionale tracciato delle frontiere delle repubbliche sovietiche pesa molto ancora oggi. Anche se, in seguito, in virtù dei valori egalitaristi del socialismo, la posizione ufficiale del PCUS è stata quella di imporre una politica di tolleranza multi-etnica in tutto l’Impero sovietico, “paradiso dei popoli”. A grandi linee, questo tracciato arbitrario dell’epoca staliniana è dunque responsabile della crescita dei problemi etnici in Asia centrale e delle tensioni nazionaliste, spesso omicide, ad esso strettamente associate. Queste tensioni etnico-nazionaliste hanno del resto affrettato la fine dell’URSS, come aveva annunciato in maniera profetica alla fine degli anni ’70, H.C. D’Encausse nella sua celebre opera “L’Empire eclaté”[xii]. E questo grave errore di Vojd (guida) è stato la condizione permissiva di una forte etnicizzazione delle crisi politiche nell’ex spazio sovietico – di cui la tragedia kirghiza non sarebbe, alla fine, che un logico sottoprodotto.
Lontano dall’essere spontanei e purtroppo trasformati in veri pogrom, gli scontri inter-etnici sembrano essere stati guidati da un mano estera, tra cui certi movimenti estremisti internazionali. Questa ipotesi è stata confermata il 1/07/2010 da Nikolaï Bordiouja, segretario generale dell’OTSC: “Noi abbiamo delle prove che gli avvenimenti a Osh sono stati pianificati ed eseguiti da membri di organizzazioni internazionali estremiste”. Secondo N. Bordiouja, essi avrebbero avuto un ruolo di spicco “negli attacchi contro alcuni abitanti kirghizi e contro gli uzbeki, così come in alcuni scontri religiosi”[xiii]. Una tale configurazione rinforza, in un prossimo futuro, i rischi di estensione della crisi kirghiza al confine post-sovietico – e, in tal caso, essa farebbe il gioco di una potenza americana desiderosa di ricoprire le sue posizione recentemente perdute (in particolare in Ucraina o anche un Uzbekistan) a vantaggio della Russia. Nel cuore del Grande Scacchiere, sono permessi tutti i colpi.
Ciò che quindi rende la posizione russa particolarmente delicata è il fatto che il Kirghizistan – ormai inserito nella zona d’interesse americana – si trova al tempo stesso nella sua “zona d’influenza” tradizionale ereditata dall’era sovietica e nella “zona di responsabilità” del OTSC, organizzazione politico-militare diretta da Mosca, ma di cui gli altri membri temono un’eccessiva influenza al suo interno. Essa è infatti sospettata di voler riproporre il suo diktat del periodo sovietico, o anche di strumentalizzare la crisi kirghiza per rinforzare la sua leadership nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) a seguito dell’implosione dell’URSS. E un fattore aggravante della paralisi di questa organizzazione politico-militare eurasiatica è da una parte la debolezza dei suoi mezzi militari (di cui la Russia, seguita dal Kazakistan, è di gran lunga il maggior fautore) e dall’altra parte la sua incapacità a gestire dei conflitti interni ad uno Stato membro – essendo l’OTSC più che altro preparata ad assicurare una sicurezza collettiva contro tutte le minacce esterne riguardanti una Stato dell’organizzazione. Ma globalmente, tutti gli interventi esterni – sotto leadership russa, potenza regionale dominante – dovranno essere obbligatoriamente coperti dalla patina della legittimità dell’OTSC (associata all’ONU), fino ad ora caratterizzata da un’inquietante passività.
Alla fine, nell’ambito della riunione del 14 giugno 2010 dell’OTSC, Nicolaï Patrouchev, presidente del Consiglio di Sicurezza russo, ha dichiarato che gli Stati membri dell’organizzazione eurasiatica “non hanno escluso l’eventuale utilizzo di tutti i mezzi a disposizione dell’Organizzazione, in funzione dell’evoluzione della situazione in Kirghizistan.”[xiv]. E poco dopo, l’8 luglio 2010, il capo della diplomazia kirghiza, Rouslan Kazakbaïev, ha annunciato che l’OTSC aveva deciso di concedere un aiuto militare e tecnico al Kirghizistan – tra cui “un gran numero di di unità di materiale da guerra” – per rinforzare la sicurezza nel sud in preda a forti tensioni etniche[xv]. Ma questa presa di coscienza è forse giunta un po’ troppo tardi.
La sindrome afghana
A ciò, si deve aggiungere il timore dei dirigenti russi di ricadere in una sorta di “trappola afghana”, legata all’impelagarsi dell’armata rossa all’inizio degli anni ’80 in un conflitto di confine (ancora) pianificato dall’esterno. Nel dicembre 1979, la potenza sovietica fu in effetti “incitata” ad intervenire su richiesta del governo di Kabul, a seguito dell’iniziativa americana di formare e di armare la guerriglia anticomunista (tra cui i famosi talebani) per poi destabilizzare il regime afghano filosovietico. Secondo la dubbia idea di Zbigniew Brzezinski, l’amministrazione americana cercava all’epoca di giocare la carta degli “islamisti eccitati” – secondo le sue proprie parole – contro la “dittatura comunista alleata dell’URSS e del suo “asse del male”. La necessità di proteggere il potere in carica contro la minaccia di un colpo di Stato insidiosamente incoraggiato da Washington, avrebbe giustificato il mantenimento dell’armata rossa fino al gennaio 1989. Per riprendere l’espressione di Brzezinski, si trattava allora di dare alla Russia sovietica “la sua guerra del Vietnam”[xvi].
L’obiettivo soggiacente a questa iniziativa americana è distruggere l’esangue economia dell’URSS di fine anni ’70, ma, allo stesso tempo, anche di erodere in una sporca guerra la sua legittimità ideologica quale “avanguardia del socialismo avanzato”[xvii]. Ma un’altra ragione di tale intervento russo, rispondente ad una logica di sicurezza, era – già – evitare la destabilizzazione dell’Asia centrale, regione particolarmente vulnerabile sul piano politico. Poiché storicamente, la Russia ha giocato un ruolo di catenaccio securitario – certamente associato ad una forma di paternalismo politicamente orientato. Di conseguenza, trascurare questo parametro sarebbe per Washington un errore molto grave o quanto meno un comportamento imperdonabile. E inoltre, ciò esprimerebbe un deficit d’intelligenza strategica dei responsabili della linea estera americana per comprendere realmente il mondo russo e, in particolare, la psicologia specifica dei suoi dirigenti politici.
Dopo la disastrosa guerra in Afghanistan (almeno 15000 sovietici morti in combattimento[xviii]), la Russia post-sovietica teme di nuovo di essere intrappolata in un conflitto assassino, politicamente e economicamente costoso – senza parlare della dimensione umana. Tanto più che un tale conflitto nuocerebbe alla sua immagine internazionale e rischierebbe, alla fine, di distruggere la sua economia in fase di risanamento, ma notevolmente infragilita dalla recente crisi mondiale – con una caduta del PIL dell’8% nel 2009. Ora l’obiettivo dichiarato dal presidente Medvedev è modernizzare l’economia russa sulla base di un rinsaldato partenariato con l’Occidente, principalmente con l’Unione Europea. Su questo punto si può d’altronde ricordare che il progetto russo-europeo “Partenariato per la modernizzazione” è stato al centro del vertice Russia-UE del 31 maggio e 1 giugno 2010. Per sua caratteristica, questo obiettivo vincola la libertà d’azione della Russia e soprattutto la obbliga, almeno in apparenza, a rispettare le regole internazionali occidentali e a geometria variabile di “non ingerenza” – fondate sulle norme di sovranità statale/integrità territoriale. Ora, queste regole sono molto spesso imposte arbitrariamente – e politicamente manipolate – dal governo liberale mondiale, come lo si è constatato nel caso dell’indipendenza illegale del Kossovo, in violazione dei principi dell’ONU (in particolare, la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sull’integrità territoriale della Repubblica Serba). Ma la cosa più inquietante è che il Kossovo spera oggi di essere inserito nella NATO, sempre percepita da Mosca come un residuo della Guerra Fredda e soprattutto, come un’organizzazione strutturalmente anti-russa.
In quest’ottica, si può comprendere l’esitazione dello Stato russo, ereditiere politico dell’URSS, poiché tutti gli interventi solitari da parte sua sarebbero percepiti dall’Occidente come continuità dell’unilateralismo sovietico e delle sue aspirazioni imperiali – e perfino come una forma di riattivazione della Guerra Fredda. Una tale configurazione esporrebbe la Russia a delle sanzioni economiche – del tipo embargo – che possono frenare il suo sviluppo tecnologico (come nel caso al tempo dell’URSS, col “filtraggio” americano delle esportazioni occidentali di tecnologie sensibili verso l’Unione Sovietica). Quest’ipotesi è tanto più plausibile che alcuni membri della UE dell’Europa dell’est manifestano una permanente ostilità – quasi istintiva – nei riguardi di Mosca e per questa ragione sono in attesa del minimo pretesto per isolarla. Nel recente passato, la Polonia e la Repubblica Ceca sono state i più ferventi sostenitori di una politica anti-russa dell’Unione Europea privilegiando gli interessi americani (in particolare, nella realizzazione del primo progetto antimissile americano, sospettato di essere diretto contro la russia). In questo schema, tutti gli interventi sarebbero suicidi per una Russia desiderosa di inserirsi nell’ordine economico mondiale – tramite, in particolare, la sua adesione all’OMC (finora, consapevolmente frenata da Washington) – con l’obiettivo di approfittare del commercio internazionale e di ottimizzare il suo modello di crescita. Per giustificare il suo non-intervento in Kirghizistan, Mosca può dunque, con una certa legittimità, fornire la motivazione politicamente corretta di un “conflitto interno” – mostrando in ciò il nuovo realismo russo.
Dunque, per quanto si tratti di un “affare interno”, un’azione militare di Mosca sarebbe vista come un’ingerenza politica in uno Stato teoricamente sovrano: « Si tratta di un conflitto interno, e la Russia non vede per il momento le condizioni che le permetterebbero di prendere parte al suo regolamento »[xix] ha dichiarato il portavoce del presidente russo Natalia Timakova, durante la prima fase del conflitto. E soprattutto, questo intervento potrebbe provocare un conflitto regionale che porterebbe ad un effetto a catena incontrollabile e che alla fine genererebbe una crisi più globale. Come è stato molto giustamente sottolineato da E. Primakov, sulla base delle dolorose esperienze a seguito del periodo sovietico ma concernenti oggi anche il Caucaso del Nord: « Non si potrà risolvere nulla coi mezzi militari (…). »[xx].
Le lezioni di storia sembrano insegnato.
A chi giova la crisi?
In questo particolare contesto, ci si può domandare chi ha interesse ad accelerare la destabilizzazione del paese per poi, in una fase ulteriore, raccoglierne i frutti. A priori, ogni aggravarsi – o riattivarsi – della crisi kirghiza può precipitare e giustificare un intervento militare esterno, tanto da parte russa quanto da parte americana. In un tale asse, una radicalizzazione della crisi potrebbe dunque essere strumentalizzata dalle due potenze in vista di una decisa ripresa in mano della regione e, tramite ciò, rinforzarvi la leadership. In altre parole, nell’ambito della lotta di influenza – certamente attenuata sotto l’amministrazione Obama – tra i due antichi nemici della Guerra Fredda, questa crisi potrebbe essere deviare verso fini politici.
Ma, allo stesso tempo, questa crescente instabilità politica della regione potrebbe fare il gioco dei partigiani dell’ex-presidente Bakiev, dei movimenti nazionalisti e degli estremisti religiosi (o anche delle organizzazioni mafiose legate all’economia della droga[xxi]). La maggior parte di queste ipotesi sono d’altronde riprese il 29 giugno dal presidente kazako Nazarbaïev: « In teoria, (questi problemi, N.d.R.) indeboliscono il fronte della lotta contro il terrorismo internazionale e l’estremismo, la cui linea passa nel vicino Afghanistan. Il caos e la destabilizzazione nella regione giovano ai trafficanti di droga e ai mercanti di armi e esseri umani »[xxii]. L’insieme di questi gruppi anti-governo avrebbe un oggettivo interesse a manipolare i problemi inter-etnici ed a orientare la collera del popolo kirghizo contro l’attuale potere, col fine ultimo di rovesciarlo – o almeno, moltiplicando i micro-conflitti, di infragilire la sua politica repressiva e ridurre il suo impatto sui loro interessi.
Alla fine, questa strumentalizzazione dei movimenti etno-nazionalisti tende a inscriversi come una pratica corrente nello spazio post-sovietico. Ed essa fu del resto correntemente utilizzata dalla ex-amministrazione G.W. Bush, nell’ottica di indebolire il potere russo e di destabilizzarlo sui suoi sostegni di confine, tramite la compressione della sua sfera d’influenza – in particolare in ex-Jugoslavia, in Cecenia ed in Georgia e, più in generale, nella regione del Caucaso, considerata dal potere centrale russo come una vera polveriera. Ora, come è stato ricordato da Alexandre Khloponine, vice-primo ministro e rappresentante plenipotenziario del presidente russo nella regione federale del Caucaso del Nord, il Caucaso è “una regione strategica per la Russia”[xxiii].
Ciò ha rinforzato le determinazione di V. Putin a respingere ogni forma di ingerenza negli affari interni russi e, inoltre, a non tollerare “alcun colpo alla sovranità ed all’integrità territoriale della Russia”[xxiv]. In maniera implicita, il primo ministro russo si riferisce ai precedenti eccessi di ingerenza americana in zona post-sovietica – e allo stesso tempo, cerca di mostrare che la Russia ha ripreso, in maniera generale, il controllo della sua pré-carré (doppia linea di fortezze utilizzata nel Regno di Francia, N.d.T.), di cui fa parte il Kirghizistan. Questa radicale flessione della politica russa, centrata sulla difesa dei suoi interessi nazionali allargati ai suoi confini, è stata illustrata in maniera spettacolare dal suo decisivo intervento in Georgia nell’agosto 2008 – che contrasta con la sua precedente impotenza in occasione della crisi serba di fine anni ’90, gestita esclusivamente dalla potentissima NATO a vantaggio degli interessi americani. Innegabilmente, Mosca ha imparato la lezione.
L’incrocio dei percorsi
A grandi linee, l’implicita sfida della crisi kirghiza è la capacità di Mosca nel ritrovare la sua leadership regionale e la sua credibilità politica – tramite la riattivazione del suo ruolo di guardia – a scapito della potenza americana. In altre parole, si tratta ormai per Mosca di trovare delle fonti alternative di legittimità alla sua dominazione storica sul confine post-sovietico, preservando la sue relazioni con l’Occidente – come un realismo economico obbliga. Da questo punto di vista, la crisi kirghiza le offre una reale opportunità di rinforzare la sua presenza nella sua zona di interessi vitali; tanto più che essa appare agli occhi dei belligeranti, in particolare per il governo provvisorio kirghizo, come la sola potenza realmente capace di mettere ordine nella regione – nella continuità del sovietismo. E, in ultima istanza, la volontà russa di rilanciare la sua leadership politica sullo spazio della CSI dipenderà, e molto, dalla sua capacità di rimettere il Kirghizistan “sulla retta via” e ,tramite ciò, di ritrovare una certa aura regionale.
Ma il tempo stringe, poiché dopo la recente instaurazione di una “repubblica parlamentare” in Kirghizistan, di cui Mosca mette in dubbio la vitalità, la prima sfida per la nuova repubblica sarà la capacità di reintrodurre la legittimità dello Stato centrale, considerabilmente erosa dopo lo scatenarsi – e la dubbia gestione – della crisi. Ciò ha condotto il presidente Medvedev a lanciare, il 28 giugno 2010, un solenne avvertimento: “Nella situazione attuale, esiste tutto un insieme di scenari per il Kirghizistan, compresi i più spiacevoli, che conducono al crollo dello Stato”[xxv].
Poiché, alla fine, questa disaggregazione dello Stato centrale potrebbe divenire il catalizzatore dell’implosione dei grandi equilibri in Eurasia post-comunista – col rischio, poi, di destabilizzare La Grande Scacchiera.
(Traduzione di Matteo Sardini)
*Jean Géronimo, esperto di URRS e questioni russe – Université Pierre Mendès France, Grenoble CREPPEM
Centre des Recherches Economiques sur la Politique Publique en Economie de Marché
Note
[i] Brzezinski Z. (2004) : ‘’Le Vrai Choix’’, ed. Odile Jacob.
[ii] Brzezinski Z. / Scowcroft B. (2008) : ‘’L’Amérique face au monde’’, ed. Pearson.
[iii] http://fr.rian.ru/world/20100629/186980708.html : ‘’Violences au Kirghizstan: une menace pour l’Asie centrale’’, N. Nazarbaïev, 29/06/2010.
[iv] Brzezinski (2008, p.24) ammette in particolare che “(…) queste nuove regole ci permetteranno di decidere come e quando iniziare delle guerre, come strumentalizzarle o prevederle”.
[v] Brzezinski Z. (2000) : ‘’Le Grand échiquier – L’Amérique et le reste du monde’’, ed. Hachette (1° ed. : Bayard, 1997).
[vi] http://www.monde-diplomatique.fr/2008/09/HALIMI/16245 : ‘’Retour russe’’, S. Halimi, Le Monde diplomatique, sept. 2008. Vedi anche ‘’Washington et la maîtrise du monde’’, Paul-Marie de La Gorce, Le Monde diplomatique, aprile 1992. In uno dei due rapporti, viene esplicitamente precisato che l’obiettivo prioritario delle minacce americane è la Russia, considerata come l’”unica potenza al mondo che possa distruggere gli Stati Uniti”.
[vii] http://www.stratisc.org/strat_69%20BREZINSKI.html : ‘’Le Grand échiquier de Brezinski’’, Hubert-Cyprien Fabre, Istituto di Strategia et dei Conflitti.
[viii] http://www.lemonde.fr/asie-pacifique/article/2010/06/15/kirghizistan-il-s-agit-d-une-crise-tres-serieuse-selon-evgueni-primakov_1373281_3216.html , ‘’Kirghizistan : “Il s’agit d’une crise très sérieuse”, selon Evgueni Primakov’’, Le Monde pour le Monde.fr, 15/06/2010.
[ix] http://www.caucaz.com/home/breve_contenu.php?id=295 : ‘’ Le Kirghizstan et ses 8.000 ONG, étrange laboratoire de la démocratie en Asie centrale’’, C. Chauffour / B. Petric, CAUCAZ.COM, 22/11/2005.
[x] http://www.leparisien.fr/flash-actualite-monde/hillary-clinton-rappelle-son-soutien-a-la-georgie-a-son-arrivee-a-tbilissi-05-07-2010-989742.php : ‘’Hilary Clinton rassure la Géorgie sur le soutien des Etats-Unis’’, leParisien.fr, dispaccio AFP, 5/07/2010.
[xi] Si ricorda che nella notte tra il 10 e l’11 giugno 2010, sono scoppiati degli scontri armati presso Osh tra la popolazione kirghiza e la minoranza uzbeka della città. I problemi inter-etnici sono proseguiti per una settimana, portando le autorità a decretare lo stato di emergenza ad Osh e a Djalal-Abad. Secondo le informazioni ufficiali, le violenze hanno causato 275 morti, ma il bilancio potrebbe essere molto più grave (approssimativamente stimato a 2000 morti). Secondo l’OMS, tali sommosse avrebbero interessato direttamente o indirettamente 1 milione di persone (300.000 rifugiati e 700.000 trasferitisi all’interno del paese). Fonte: http://www.lefigaro.fr/flash-actu/2010/06/18/97001-20100618FILWWW00628-2000-morts-au-kirghizstan-presidence.php : ‘’Deux mille morts au Kirghizstan’’, Présidence, Dépêche AFP, Le Figaro.fr, 18/06/2010.
[xii] D’Encausse H.C. (1978): ‘’L’Empire éclaté’’, Paris, ed. Flammarion.
[xiii] http://fr.rian.ru/world/20100701/186993670.html : ‘’Violences au Kirghizstan : l’OTSC accuse des organisations extrémistes’’, N. Bordiouja, 1/07/2010.
[xiv] http://fr.rian.ru/ex_urss/20100614/186896967.html : ‘’OTSC : des mesures de règlement au Kirghizstan approuvées’’, N. Patrouchev, 14/06/2010.
[xv] http://fr.rian.ru/ex_urss/20100708/187029844.html : ‘’Kirghizstan : l’ ‘’Otan’’ russe accorde une aide militaire’’, R. Kazakbaïev, 8/07/2010.
[xvi] http://www.voltairenet.org/article15298.html : ‘’La stratégie anti-russe de Zbigniew Brzezinski’, A. Lepic, 22/10/2004.
[xvii] Dagli anni ’60, l’economia sovietica soffre di un declino strutturale della sua produttività che, progressivamente, la conduce verso il tasso di crescita zero all’inizio degli anni ’80. Brzezinski ne è perfettamente a conoscenza, così come sa che l’URSS non potrà finanziare a lungo una guerra divoratrice di risorse e che, da ciò, comprime l’investimento nella sfera dell’economia civile. In accordo alla tesi di Jacques Safir, l’URSS è prima di tutto un’economia mobilitata (tramite il piano centrale) e militarizzata in funzione di un preciso obiettivo politico (tradotto in priorità economiche) – in qualche modo, una vera “economia di guerra”. Vedi : Sapir J. (1990) : ‘’L’économie mobilisée – Essai sur les économies de type soviétique’’, ed. la Découverte.
[xviii] Tra il 1979 e il 1989, 620.000 sovietici hanno combattuto la guerra in Afghanistan. Il bilancio ufficiale ammonta a 14.453 morti, 53.754 feriti e 415.932 malati. Ma alcune statistiche militari russe stimano che il bilancio reale sia più vicino a 26.000 morti, solo per la 40.ima armata! Hanno anche perso 118 aerei da combattimento, 333 elicotteri, 147 carri, 1.314 mezzi blindati da trasporto, 11.369 camion… Sul lato afghano, il numero di morti sarebbe tra 1 e 1,5 milioni.
[xix] http://fr.rian.ru/ex_urss/20100612/186892266.html : ‘’Kirghizstan-violences : Moscou refuse d’intervenir’’, N. Timakova, 12/062010.
[xx] Primakov, 15/06/2010, op. cit.
[xxi] Tutta questa destabilizzazione del paese rischia di frenare la lotta alla droga condotta dagli americani in Afghanistan (primo produttore mondiale di oppio), tanto più che ciò perturberebbe il funzionamento della base di Manas, inevitabile centro di transito verso questo paese. Ma più in generale, sotto l’impulso della Russia fortemente toccata da questo flagello – 80 tonnellate di stupefacenti vengono “importate” dall’Afghanistan ogni anno – l’OTSC cerca di combattere in Asia centrale il problema della droga e dell’economia parallelo/mafiosa che vi è associata. Ora, la crescente incertezza in Kirghizistan complica questa azione collettiva anti-droga dell’OTSC (sottraendo delle preziose risorse) e dunque avvantaggia obiettivamente le strutture mafiose stabilitesi nello spazio centro-asiatico. E bisogna ricordare che una delle principali strade di esportazione della droga passa al sud del Kirghizistan (presso Osh e Djalal-Abad), laddove hanno avuto luogo gli scontri inter-etnici. « La regione di Osh rappresenta una sorta di imboccatura per la quale gli stupefacenti si propagano in tutta l’Asia centrale. Questa regione è una piattaforma girevole del traffico di droga”, ha dichiarato il direttore dei Servizi Russi di Controllo degli Stupefacenti (FSKN), Viktor Ivanov. Per combattere il traffico di eroina proveniente dall’Afghanistan, Mosca vorrebbe impiantare delle nuove basi militari negli stati confinanti quali Kirghizistan, Tazikistan e Kazakistan. Per tutte queste ragioni per quanto sia al centro della lotta d’influenza tra russi ed americani per il controllo dell’Asia centrale, il Kirghizistan deve essere considerato come una pedina strategica della Scacchiera eurasiatica.
[xxii] Nazarbaïev, 29/06/2010, op. cit.
[xxiii] http://fr.rian.ru/russia/20100515/186697886.html : ‘’Caucase, une région stratégique pour la Russie’’, A. Khloponine, 15/052010.
[xxiv] http://fr.rian.ru/russia/20100706/187018980.html : ‘’Extrémisme au Caucase: crimes sous couvert de mots d’ordre politiques’’, V. Putine, 6/07/2010.
[xxv] http://www.lepoint.fr/les-kirghizes-reforment-leur-constitution-moscou-mefiant-28-06-2010-471208_19.php : ‘’Les Kirghizes réforment leur Constitution, Moscou méfiant’’, O. Zioubenko, Le Point.fr, 28/06/2010.