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Il ruolo francese nell’accerchiamento dell’Iran

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L’Iran è ormai da tempo al centro di una fitta rete di tensioni geopolitiche e intrighi diplomatici.
Attualmente è Teheran il bersaglio grosso che fa gola a tutte le potenze globali, per portare la Repubblica Islamica stabilmente nel proprio campo (è il caso della Russia) o per piegarla ai propri diktat, come nel caso degli Stati Uniti.
Nella partita iraniana l’Europa gioca, come sempre, su più tavoli; ciascuno Stato membro, dietro a una facciata di unità di intenti, persegue i propri interessi specifici. Nel caso dell’Iran abbiamo una forte schizofrenia tra gli interessi di natura economica (i rapporti commerciali di Paesi come Germania e Italia sono storici e strettissimi) e quelli politici. Da questo punto di vista l’approccio delle cancellerie europee alla questione-Iran continua ad essere influenzato dalla voce grossa della Casa Bianca, che è addirittura arrivata a imporre agli europei sanzioni… contro loro stessi.
Questo articolo si concentra però su un Paese specifico, la cui tensione con Teheran si è recentemente ancora più innalzata rispetto agli altri: la Francia. Al recente summit strategico della Nato a Lisbona, il più duro e il più risoluto degli astanti nell’attaccare l’Iran è stato proprio Nicolas Sarkozy.
I rapporti franco-iraniani sono sempre stati di una complessità non indifferente, e sono sempre stati leggibili a diversi livelli. In Francia trovarono rifugio diversi dissidenti del regime di Reza Pahlavi, inclusi Ali Shariati (il teorico del Socialismo Islamico) e lo stesso Khomeini. Fatto di cui col senno di poi a Parigi devono essersi pentiti. Già durante l’esilio il governo francese era indeciso sul trattamento da riservare all’ayatollah. Scartata l’idea di espellerlo per poterlo controllare meglio ed evitare che si rifugiasse in Paesi ostili come la Siria o la Libia (si vedano le memorie dell’ex consigliere governativo Alexandre de Marenches), i francesi considerarono anche l’opzione di eliminarlo fisicamente loro stessi. Lo stesso de Marenches cita al riguardo una proposta avanzata allo Scià dal principe Michel Poniatowski in visita ufficiale a Teheran. In seguito al ritorno in patria e agli eventi del 1979, fu proprio il governo francese uno dei più rigidi nei confronti della neo-proclamata Repubblica Islamica. Il primo passo fu la sospensione del programma nucleare congiunto che i francesi avevano concordato con lo Scià. Pahlavi aveva infatti stipulato con la società francese Cogéma (di proprietà statale) l’accordo per istituire la Sofidif (Società Franco-iraniana per l’arricchimento dell’uranio per diffusione gassosa), una sussidiaria del consorzio europeo Eurodif. Accordo che Miterrand fece prestissimo a cancellare una volta deposto Pahlavi. Questo, si badi, nonostante l’Iran avesse già versato più di un miliardo di dollari nelle casse della società mista. Si può dire senza esagerare che fu da questo lontano episodio del 1982 che affonda le sue radici l’attuale querelle sul dossier nucleare iraniano. Solo una decina di anni dopo, nel 1991, la Francia riconobbe agli iraniani un risarcimento pari a più di 1,6 miliardi di dollari. All’annullamento dell’accordo fece seguito l’irrigidimento dei rapporti tra Parigi e Teheran.
Si ha poi la data-spartiacque del 1980, l’inizio della guerra di otto anni imposta dall’Occidente all’Iran contrapponendolo all’altro Stato forte della regione, l’Iraq baathista di Saddam Hussein. Parigi ha sempre vantato stretti legami con gli irakeni, come dimostra anche la fiera e orgogliosa opposizione all’invasione angloamericana del 2003 del presidente Chirac, vero capofila del fonte internazionale contrario all’intervento. Gli interscambi commerciali (civili e militari) di Baghdad con Parigi all’epoca erano secondi solo a quelli con l’Unione Sovietica. Il reattore nucleare irakeno di Osirak, costruito a sud di Baghdad e distrutto dagli israeliani nel 1981, venne costruito col determinante contributo della Francia. A questo quadro generale si aggiungeva una notevole dipendenza francese dal petrolio irakeno.
Il supporto del governo di Miterrand all’Iraq durante il conflitto fu imponente: in particolare per quanto riguarda l’aeronautica, con oltre 100 caccia Mirage F-1 e cinque bombardieri Super Etendard, all’avanguardia per l’epoca. In più, diversi elicotteri d’assalto, fra cui i Puma e i richiestissimi Gazelle, e una varietà di munizioni ad alta precisione (i missili Exocet). Questi i rifornimenti pubblicamente ammessi. Inoltre, si verrà a sapere anni dopo, attraverso la presunta intercessione del trafficante internazionale di armi Sarkis Soghanalian (molto vicino all’amministrazione Reagan) giungeranno in Iraq diversi carri armati AMX-30. Qui cominciano i primi duri contrasti tra Parigi e Teheran. La ritorsione iraniana per l’aiuto francese agli irakeni ha come teatro il Libano. Uno dei principali motivi del contrasto tra i due Paesi risiede nel fatto che la Repubblica Islamica ha esteso la propria influenza politica in aree del Vicino Oriente in cui la Francia giocava fino ad allora un ruolo di primo piano. Soprattutto nel Levante, ovvero le ex colonie Siria e Libano. Anche oggi la Francia aspira a tornare punto di riferimento geopolitico per quest’area, come dimostra l’iniziativa di Sarkozy di istituire l’Unione per il Mediterraneo nel 2008 nella speranza di sganciare Damasco dall’amicizia con l’Iran. Speranza presto disillusa.
Nel pieno della guerra civile libanese, Parigi (che ha sempre considerato Beirut come suo feudo) partecipa con un contingente di 1500 paracadutisti al mandato della Forza Multinazionale, composta anche dai marines statunitensi e dai soldati italiani. Il mandato politico di francesi e statunitensi, squilibrato in favore di una fazione (quella maronita) a differenza della neutralità italiana, costò gli attentati suicidi che colpirono i rispettivi quartier generali dei due eserciti il 23 ottobre 1983 (241 morti tra i marines e 58 tra i parà transalpini). Inoltre il confronto si focalizzò anche sul rapimento di diversi cittadini francesi da usare come moneta di scambio per la squadra di agenti iraniani che aveva tentato di eliminare a Parigi l’ex primo ministro dello Scià, Shapour Bakhtiar. Il responsabile operativo dell’azione, Annis Naccache, venne rilasciato assieme ai suoi quattro compagni il 27 luglio 1990. In cambio Miterrand promise anche agli iraniani di espellere alcuni influenti esuli fuggiti in Francia dopo il 1979.
Promessa mai mantenuta. Nei decenni successivi, infatti, Parigi si è affermata come vero epicentro della dissidenza iraniana all’estero. Addirittura non è scorretto affermare che tutte le campagne propagandistiche rivolte strumentalmente contro Teheran negli ultimi anni sono partite proprio da Oltralpe, prima ancora che dalle altri capitali ostili alla Repubblica Islamica come Washington e Tel Aviv. Questo per una ragione ben precisa: è a Parigi che ha sede la più grande centrale politica di destabilizzazione dello Stato iraniano, ovvero il sedicente Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, braccio politico dell’Organizzazione dei Mujaheddin del Popolo dell’Iran (Pmoi). I Mujaheddin del Popolo, inizialmente nemici del regime dello Scià al fianco dell’opposizione islamica, furono espulsi dal Paese dopo la Rivoluzione, per via della loro visione marxista-leninista incompatibile col nuovo corso politico. Da lì in poi, la loro opposizione alla Repubblica Islamica diverrà talmente disinvolta da fargli meritare l’appellativo di “monafeqin” (“ipocriti” in lingua farsi). Nel corso dei decenni si sono alleati con chiunque si schierasse contro l’Iran. Da Saddam Hussein, che gli concesse come base la cittadella di Ashraf (teatro di scontri con l’esercito irakeno un anno fa), e al cui fianco combatterono contro il loro stesso Paese, per arrivare a contatti con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, nonostante figurassero nella black list dei gruppi terroristi (rimossi da quella della UE solo nel 2009). Recentemente le pressioni per toglierli dalla lista delle organizzazioni terroristiche si sono alzate anche negli Usa. I Mujaheddin, la cui leadership è saldamente nelle mani di Maryam Rajavi (moglie del fondatore Massoud), rifugiata a Parigi sin dal 1982, hanno abbandonato la vecchia ideologia marxista-leninista (sorpassata e piuttosto imbarazzante per i loro nuovi amici…) per puntare a un progressismo democratico all’occidentale, tutto incentrato sui diritti umani e sul politicamente corretto. Richiami alla separazione tra Stato e religione, ai diritti delle donne, e via dicendo: tutti i luoghi comuni tanto cari all’Occidente quando si tratta di attaccare la Repubblica Islamica. A Parigi hanno trovato terreno decisamente fertile, stringendo contatti bipartisan sia con ambienti della destra post-gollista sia con quelli socialisti radical-chic della sinistra al caviale. L’agibilità politica degli esuli iraniani in Francia è sempre stata totale, tanto da sollevare più di un dubbio al riguardo; l’unico episodio di un certo rilievo risale a una serie di perquisizioni nel 2003 per un’inchiesta poi archiviata in tutta fretta. Fra i contatti più stretti del Pmoi vanno annoverati tutti quegli intellettuali o presunti tali, paladini dei diritti umani. I cosiddetti “nuovi filosofi” alla Bernard-Henri Lévy e alla André Glucksmann, anche loro ex comunisti pentiti passati alla religione dell’occidentalismo, sempre in prima fila quando si tratta di difendere Israele e attaccare qualche Stato non allineato, che sia l’Iran o la Russia di Putin, e sempre degnati di grandi attenzioni dai principali mezzi di comunicazione (in Italia soprattutto dal Corriere della Sera). La recente mobilitazione globale sul caso Sakineh, ad esempio, parte proprio da questi ambienti, con momenti addirittura paradossali, come quando a inizio novembre è lo stesso Lévy a dichiarare (non si sa bene su quali prove) sulla sua rivista online che l’esecuzione della donna “sarebbe questione di ore”. Ovviamente congettura poi totalmente smentita dai fatti, ma l’obiettivo (tenere costantemente alta la pressione su Teheran) è raggiunto. Il ruolo di primo piano giocato dai francesi nella vicenda è stato presto percepito dagli iraniani, col corollario della polemica (molto scenografica ma politicamente poco rilevante) delle polemiche sulla premiére dame, la nostra –ex– connazionale Carla Bruni.
Ma non c’è solo questo. Anche l’annoso braccio di ferro sul dossier nucleare iraniano nasce proprio da rivelazioni fatte dai dissidenti iraniani in Francia. Rivelazioni risalenti al 2002, che sul momento passarono sottotraccia (si era in piena fibrillazione per un’altra bufala, quelle delle armi di distruzione di massa irakene), ma che in seguito si sono via via gonfiate. Vezzeggiata come perseguitata politica, forte di una organizzazione politica capillare, la Rajavi è stata più volte invitata a parlare al Parlamento Europeo, rilasciando dichiarazioni allarmistiche sulla presunta volontà di Teheran di entrare in possesso del nucleare a scopo militare, e invocando addirittura severe sanzioni contro il suo stesso Paese. Allo stesso tempo, anche i contatti con la destra statunitense si moltiplicano: è recente la visita a Parigi del falco neo-con John Bolton, così come sono frequenti i contatti con associazioni di esuli iraniani negli Usa, la cui opera di lobby per togliere il Pmoi dalla lista delle organizzazioni terroristiche sta riscuotendo sempre più consenso in seno al Partito Repubblicano.
In sintesi, una vera e propria opera di spionaggio e di manipolazione mediatica volta a isolare politicamente la Repubblica Islamica, a fronte di un sostegno popolare pressoché nullo (gli agenti provocatori infiltrati dai Mujaheddin all’interno dell’Onda Verde sono stati smascherati e neutralizzati senza troppi problemi dalle forze di sicurezza iraniane nel 2009).
Il tutto dall’esilio di lusso dei salotti bene parigini.


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